Lettera aperta in risposta all’articolo del prof. Allievi: L’Alzheimer. Il frutto avvelenato di una buona notizia, l’allungamento della vita. Corriere del Veneto”, 22 dicembre 2021

Mi chiamo Daniela Mannu e ho avuto una madre affetta dal frutto avvelenato, convivendo con la malattia di Alzheimer per circa 18 anni.

Gentile prof. Allievi, il suo articolo mi colpisce molto.

https://www.pressreader.com/italy/corriere-del-veneto-venezia-e-mestre/20211222/281947431170489

Quello che lei descrive è tutto vero, le persone ammalate di Alzheimer non sono autonome in nulla e pretendono molto dalla famiglia.

Quando mia madre si ammalò avevo 26 anni e non capivo nulla di servizi pubblici. Tanto meno di servizi sanitari.

La cosa che ci disse il neurologo durante la prima diagnosi  ( mia sorella aveva 33 anni) fu : “Non c’è nulla da fare, ve la tenete così. “

Quel “Ve la tenete così”, mi destabilizzò molto. Nemmeno il veterinario del nostro cane utilizzava un linguaggio così sterile.

La frase che seguì  a  “ve la tenete così” fu:   “vivrà un paio di anni in modo autonomo e poi…. e poi si alletterà, al massimo 7-8  anni in tutto”. Così ci dissero alla prima diagnosi.

I primi disturbi della MDA non li abbiamo colti nella quotidianità, ma durante una breve degenza in ospedale per un   piccolo intervento. Allora mia madre sclerò e fu una settimana difficile. Tanto difficile in ospedale, che decidemmo di riportarla a casa in anticipo, prendendocene la responsabilità.Eravamo giovani, avevamo molta energia, non avevamo nessuna intenzione di  sacrificarci  per la famiglia, e abbiamo capito subito la cosa più importante da fare: vivere tutte nel miglior modo possibile, mettendo però al centro la qualità di vita della mamma.

Certo la preoccupazione economica c’era, concordo con lei:  i costi, diretti e/o indiretti della cura sono alti. Anche i costi umani sono alti.

Ma non ho mai visto il flagello della guerra tra generazioni esplodere. La ricchezza di mia madre contro la nostra povertà. Ho sempre riconosciuto  il lavoro delle donne che nel tempo ci hanno affiancato e confermo la mia fatica nel conciliare tempi di cura e di lavoro.

Ho sofferto molto, invece, la solitudine, dovuta certamente, già allora,  alla comunicazione della malattia così come descritta nel suo articolo.  Malattia che non lascia nulla della persona che conoscevamo, che impoverisce la famiglia, lasciando un grande vuoto nelle relazioni familiari, dove non si riesce ad elaborare un lutto precoce, nella mancanza totale di servizi, nella sporcizia e puzza quotidiana. Ho sempre rifiutato a priori la frase che mi rendeva un essere inferiore: “ dove c’è un malato in famiglia tutta la famiglia è ammalata”, ritenendo invece di poter competere con chi mi catalogava e mi inseriva in un database sanitario, e non solo per questioni di ingegno italico e resilienza, ma anche per competenza acquisita giorno dopo giorno compiendo gli atti quotidiani della vita.

In parole povere  la sua metafora non mi convince. Capisco bene il suo punto di vista, ma  leggo un certo risentimento nei confronti dei malati, e dei “vecchi”  che mi infastidisce.

Molti vecchi hanno allevato a proprie spese prima i figli e poi i  nipoti. Mantenuto i figli e i nipoti, tutti  precari, per diverse generazioni. Acquistato la casa ai figli e pagato le attività sportive ai nipoti, perché il vero gap generazionale è nella qualità e quantità di lavoro malpagato che le giovani generazioni sopportano. Ma questo non è colpa dei vecchi malati di Alzheimer.

Non sono i vecchi ad essere improduttivi, colmando vuoti di welfare evidenti. E’ la richiesta continua di produzione veloce e standardizzata, anche di servizi di prossimità,  che non permette alle persone e alle strutture familiari fragili di competere economicamente.

Secondo me la Malattia di Alzheimer è un’accusa impietosa della rigida velocità della società contemporanea, legata  a logiche prestazionistiche eccessivamente incisive sulla vita quotidiana di tutte e tutti  noi. Molte delle discrasie da lei descritte nell’articolo,  sono dettate non solo dalla mancanza di servizi, ma anche dalla nostra incapacità di dare a ciascuna persona il proprio tempo e di considerare il tempo parte della cura.

Il tempo della malattia va rispettato, i tempi dei malati vanno rispettati. I familiari devono imparare a prendere il loro tempo.

Nella difficoltà di  percepire e gestire nelle azioni quotidiane il tempo, come  tempo profondamente umano e denso di relazioni, ecco in questa incapacità di gestire tempo al di fuori delle logiche aziendali, leggo , forse, la metafora dell’Italia contemporanea.

Daniela Mannu

Presidente dell’Associazione Familiari Alzheimer Pordenone onlus.