Per non essere utili idioti
(edito dalla Comunità di Capodarco)
L’espressione forte che utilizziamo vuole esprimere il disagio che stiamo vivendo: nei confronti del mondo della marginalità che, nonostante tutto, non vede luce di soluzione; nei confronti di noi stessi, diventati ingranaggi di un welfare strutturalmente ingiusto; nei confronti della politica che ci utilizza sfacciatamente.
Un quadro desolante
Da oltre trent’anni siamo coinvolti nella politica sociale in Italia; da quando, nel 1971, con la legge 118, si parlò per la prima volta di handicappati riconosciuti persone, invece che semplici numeri o individui da nascondere.
Gli anni ’70 sono stati l’inizio di una grande tensione sociale. La chiusura dei manicomi, il riconoscimento dei diritti alla salute con la riforma sanitaria, hanno costituito la pietra miliare di una concezione di popolo ugualitaria, solare, protesa verso il futuro, più giusta.
Sono di quegli anni le “prime invenzioni” alternative agli istituti, alle segregazioni, alle vergogne.
L’Italia, come del resto l’Europa, ha sperimentato, nel prosieguo del tempo, altre emergenze: la tossicodipendenza, la marginalità metropolitana, la devianza, l’immigrazione, l’invecchiamento della popolazione, il malessere psicologico e “immateriale”.
Abbiamo continuato a inventare risposte: comunità per ragazzi tossicodipendenti, comunità per ragazzi stranieri non accompagnati, comunità di vita, inserimenti lavorativi, integrazioni sociali. Sempre in salita: dovendo, ogni volta, spiegare, chiedere, aspettare che gli addetti comprendessero.
Lo stato sociale in trent’anni si è raffinato, con accelerazioni e decelerazioni: non in modo omogeneo nel tempo, né nei territori. Tensioni di riforma sono state accompagnate da periodi di riflusso: non si è arrivati, come per la sanità, l’istruzione, la comunicazione, l’energia, a un assetto stabile di risposta sociale.
Dal versante del privato sociale ci hanno accompagnato due fenomeni: il crescere, non sempre lineare e disinteressato, di associazioni, onlus, fondazioni, cooperative e, contemporaneamente, il sorgere delle scienze sociali: sociologi, psicologi, assistenti sociali, pedagogisti, educatori, laureati in scienze sociali sono diventati numerosi e invadenti.
Eravamo coscienti che ai problemi sociali non si poteva più rispondere con il buon cuore.
A questo punto abbiamo commesso un gravissimo errore, di cui oggi sentiamo le conseguenze negative. Siamo diventati gestori di servizi, senza riuscire ad ottenere un quadro di riferimento uguale in Italia, caratterizzato da risposte certe, diffuse nel territorio, di livello minimo garantito. Siamo stati succubi, superbamente orgogliosi, della nostra risposta precaria, con quattro grandi limiti: abbiamo perduto la nostra dimensione di coscienza critica e di inventiva; abbiano subìto “gabbie assistenziali” imposte da altri; abbiamo creato “aziende sociali” imbarcando specialisti di ogni genere; siamo stati promotori di un mercato straccione.
Con un sguardo distaccato, ma sufficientemente lucido, non è difficile capire che il mondo assistenziale odierno conserva tutte le caratteristiche di debolezza e instabilità.
Non abbiamo più coscienza critica. L’approccio caratteristico della gestione dei servizi non ha portato a leggere i fenomeni di sofferenza sociale con occhio alle cause e alla loro rimozione. L’istinto oramai era quello di creare risposte sociali. Come agenzie abbiamo proposto la soluzione dei problemi: chiavi in mano, come a volte ci veniva chiesto. Che cosa accade su un territorio, quali risorse “naturali” utilizzare, quali forme alternative di risposte sono diventate non quesiti. La preoccupazione è stata quella di cercare la nicchia entro cui attestarsi, nello sforzo di dare un servizio decente.
Questo trend ha fatto lievitare le agenzie sociali: ce ne sono di tutte le razze. Fondazioni non fondazioni; onlus padronali; cooperative imprese, mercato privato. Il mondo del volontariato, così esaltato e così nobile e diffuso è inquinato: anche da malaffare e da cattiva coscienza. Né occorre fare nomi, perché tutti conoscono, in un territorio, chi agisce per che cosa. Si è creata una situazione paradossale. Non siamo stati capaci di far crescere la coscienza civile per avere risposte che non dipendessero, di volta in volta, dalla disponibilità delle risorse o di qualche amministratore illuminato. Moltissime leggi, nel frattempo, sono state scritte e pubblicate. In nessun territorio si sa con certezza qual è lo zoccolo duro della risposta sociale e quali gli attori preposti alla realizzazione: appalti, convenzioni, pubblico, semipubblico sono diventate modalità senza logica e senza costrutto.
Nel mercato che evolveva, la parte pubblica si è organizzata in modo schizofrenico. Impostando standard di qualità altissimi: dettagli che nulla lasciassero al caso. Con una puntigliosità patologica, confondendo piccole comunità con hotel; mense dei poveri con ristoranti. Il fatidico accreditamento è un esame da cui nessuno sfugge e dal quale nessuno ha più sconti. Le abbiamo chiamate “gabbie assistenziali”: luoghi preconfezionati dove possono accedere coloro che hanno determinate morbilità, con qualità strutturali regolate nei dettagli, affidate a professionalità accademiche, senza prevedere, alla fin fine, la qualità della vita. Mai nessuna parola che esprimesse valori irrinunciabili per un anziano, per un disabile, per un malato psichiatrico: mondi umani ai quali si risponde con l’accademia, dimenticando che ogni ambiente riabilitativo deve essere umano prima che perfetto.
E’ sembrato che lo schema medico abbia prevalso su quello assistenziale: la cura degli organi, dimenticando che chi è in difficoltà sociale non ha organi malati, ma ha la vita difficile.
In queste circostanze era logico dover creare vere e proprie aziende. Con patrimoni, fatturati, gestione delle risorse umane improvvisati e claudicanti. Solo recentemente si è formata una classe di manager esperti di sociale: costoro non sono di casa presso il non profit, ma nel mercato. Offrono professionalità anaffettive: luoghi belli, invece che persone belle. Ambienti lucenti invece che relazioni. Il dubbio è che le “gabbie assistenziali” siano state inventate per collocare i professionisti. Non si spiegherebbero altrimenti impostazioni dai dettagli utili per la clientela in transito, ma niente affatto logici per chi nella struttura deve trascorrere la vita. Noi siamo rimasti al palo, costretti a fare un mestiere al quale non eravamo né preparati, né affezionati, rischiando di tradire ciò che avevamo di caratteristico.
Infine il mercato “pubblico” ha mostrato il suo antico cinismo. In nome dell’equità ha messo ogni cosa a concorso, esigendo un pranzo di nozze al prezzo di una pizza; scatenando rivalità; non preoccupandosi delle vittime della guerra degli appalti, lasciando che il mercato si muovesse autonomamente. Ogni fantasia è stata attivata per risparmiare: il ricorso alle figure dei lavoratori-soci, forme di contratto improprie, volontari-operatori: il precariato è abbondantissimo. Ma se, nel servizio pubblico, un giorno forse, un precario sarà stabilizzato, nelle imprese non profit nel futuro ci sarà il licenziamento: è sufficiente non conseguire l’appalto dell’ anno successivo.
Di fronte a questo quadro prende sconforto e smarrimento: né è possibile chiudere bottega. Sono state coinvolte famiglie, lavoratori, il buon nome, gli anni dedicati.
Il welfare che non interessa più nessuno
Al di là dei propri errori è però indispensabile chiedersi a che punto è la politica sociale in Italia.
La sensazione che abbiamo è che stiamo regredendo e anche velocemente. Alcuni fenomeni antichi e nuovi fanno da indicatori.
Per quel che abbiamo capito, nel precedente governo le politiche sociali non ci sono state. I problemi sono stati affrontati per slogan legislativi: tossicodipendenza, immigrazione, prostituzione, carceri. Importante era rassicurare la popolazione: tolleranza zero, sicurezza sociale etc. etc. Magari, nemmeno quella. Leggi carta straccia, perché non accompagnate da nessuna reale politica. Tagli alle amministrazioni locali; piccoli spot pubblicitari: mille euro a bambino nato, 700 mila dentiere (promesse) ai vecchi e vai.
Il governo odierno ci ha detto che bisognava riordinare i conti. E’ venuto fuori “il tesoretto”. Sappiamo già che fine farà: ben che vada sarà spalmato perché milioni di famelici diranno che stanno sul lastrico. Chi veramente ci sta, ci rimane.
E veniamo al dettaglio: povertà, famiglie, anziani, carceri, tossicodipendenze, non autosufficienza, immigrazione.
E’ già da qualche lustro che doverosamente l’ISTAT ci racconta delle famiglie povere in Italia: due milioni e mezzo circa, composte sempre dalle stesse persone: famiglie numerose, persone sole, al sud.
C’era stato un tentativo di reddito minimo di inserimento. Scomparso nel nulla. I non autosufficienti: come sopra. Le carceri, disumane, come sempre. I Sert vecchi di vent’anni. La nuova legge sull’immigrazione: più furba di quanto sia generosa. Corsie preferenziali per infermieri, badanti, colf, tecnici specializzati, manager, artisti. Quanti ci servono (eccetto gli artisti).
Le famiglie: quattro mesi impegnati sul riconoscimento dei diritti delle famiglie di fatto. Scarsa natalità; invecchiamento della popolazione; ricorso abbondante alle colf; affitti delle case in crescita libera; assenza di ogni politica “giovanile”: sono rimasti dove erano.
Resta il dubbio di sapere se ancora esiste una progetto di welfare. Forse nelle carte e negli organismi che rapidamente si attivano: tavoli di raccordo, uffici, inchieste, affitti, linee telefoniche, segreterie, programmazioni che hanno solo il merito di sistemare giovani disoccupati e amici dell’entourage, dimenticando i destinatari. Un motore che brucia il 75% delle risorse per stare acceso.
In genere si rimandano alle amministrazioni locali le incombenze di politica sociale. E’ una specie di elastico: dal governo ai territori, dai territori al governo.
Non possiamo più tacere. Abbiamo la sensazione di essere diventati i gestori dell’ultimo spicchio della società: poveri tra poveri, marginali tra marginali.
Il non futuro
Forse è arrivato il momento di sapere esattamente dove siamo collocati: per chi e a quali condizioni. Non vediamo né prospettive, né tanto meno progettazioni.
Eravamo arrivati al nuovo assetto della 328. Aveva buone intenzioni: programmare il territorio e sviluppare una rete sociale congrua. L’unico risultato è stata la moltiplicazione di leggi regionali, di strutture intermedie, di allocazioni di personale, rimasuglio della politica.
Nessuno sa quali siano i diritti sociali riconosciuti, quali le garanzie minime di aiuto e assistenza. Non siamo così ingenui da non capire che il sociale, strutturalmente, è debole e marginale. Un congruo sviluppo della ricchezza del paese non può però, nella prassi democratica, non far procedere, di pari passo, una politica sociale adeguata.
Siamo ancora nello schema della pelle di leopardo: in alcuni luoghi servizi abbondanti, in altri inesistenti; in alcuni di eccellenza, in altri di impostazione antica.
In questa dislessia diffusa occorre rimettere ordine. Magari con fatica e scelte difficili: non è più possibile navigare a vista.
Una prima grande scelta è decidere se la politica sociale è a capo della famiglia o a una rete di servizi. Al di là delle parole, l’orientamento è in atto: minori, anziani, disagio giovanile, devianza sembrano essere affidati alle famiglie. Esse reagiscono come possono: chi ha strumenti affronta i problemi; chi non ne ha subisce il peso della inadeguatezza. I servizi a volte sembrano offrire soluzioni, a volte respingono la domanda dichiarando di non avere strumenti; a volte si affiancano, a volte invadono, a volte si allontanano.
Un secondo tratto da definire è stabilire che cosa il territorio nazionale offre, sottraendo il sociale da tutte le intemperie che si abbatte su di esso (la finanziaria, gli appalti, le precarietà, le amministrazioni). Non è possibile continuare a vivere precariamente. I grandi temi sociali sono diventati per le amministrazioni e per noi stessi ricerca affannosa di risorse, spulciando tra i residui finanziamenti. Alla disoccupazione giovanile non si può rispondere con risorse di qualche mese, raccattate da stanziamenti dell’Unione europea; né si può trattare il sociale con il ricorso massiccio alle badanti, ancora a basso costo.
Alla fin fine: è possibile riprendere il filo delle politiche sociali in Italia, facendone il punto e indicandone i successivi passaggi? Il dubbio fondato è che in realtà le attenzioni siano altrove: per la mente dei più (governanti e governati), nello schema del grande sviluppo economico non sono previsti, se non come fastidiose postille, i problemi delle irregolarità (disabili, immigrati, malati, irregolari, anziani). Non è vittimismo scoprire che sono anni che nessuno ci ascolta. Semplicemente perché i problemi nei quali siamo immersi non fanno parte di nessuna agenda.
La conclusione amara è che la società dei regolari si stia organizzando per il futuro, non prevedendo e quindi non affrontando il livello di vivibilità dei deboli. In questa prospettiva la politica è madre e figlia del disinteresse. Non abbiamo nessun alleato: non nella popolazione “regolare” che pensa a sé; non nella agenzie della solidarietà (sindacati) pressate dagli interessi dei propri iscritti, nemmeno tra noi stessi, incapaci di fare fronte comune e offrire indicazioni di ampio respiro. Anche i più esigenti pensano ai propri militanti in cerca di lavoro e di casa. Il vecchio non autosufficiente è veramente solo e abbandonato: sopravvive se ha una famiglia che lo ama; fosse per lo coscienza collettiva sarebbe ricollocabile nei casermoni dall’acre odore di orina. La stessa Chiesa cattolica è rifluita nella logica dell’assistenzialismo, capace di offrire pasti caldi e biancheria pulita usata. Anch’essa ha altri temi prioritari: gli ultimi sono proprio ultimi.
A chi serviamo?
La sintesi dei disagi che viviamo è rappresentata dalla nostra relazione con la politica. Una relazione che ha due debolezze: di dover essere filo-governativi per sopravvivere; di non essere interlocutrice di nessuno.
Sembra che l’assetto della società italiana si sia stabilizzato intorno agli interessi del cosiddetto “centro”. Una espressione che non è solo rivelatrice delle politiche da adottare, ma che vede nel nucleo “regolare” della popolazione l’epicentro degli interessi, dei dibattiti, delle risposte. Al di là delle differenziazioni lessicali, l’interesse per il “centro” coinvolge tutto l’arco della politica. In questo quadro siamo considerati e ci sentiamo periferici. Per questo non ci entusiasmano i processi di rinnovamento dei partiti e delle loro alleanze. Comunque gli assetti saranno, abbiamo certezza di non essere interlocutori. Non per chi siamo; ma per gli ambiti che rappresentiamo. Insomma la politica si sta occupando del core-business dell’Italia, che non siamo noi.
Tre esempi. La discussione sui DICO è rivelatrice dell’attenzione ai benestanti, con la richiesta di riconoscimento di diritti per persone che hanno carte in regola in termini culturali, economici, sociali, ai quali manca un piccolo pezzo che è il riconoscimento di veri o presunti diritti. Come si fa a parlare di famiglia in Italia non partendo dei suoi problemi strutturali: la casa, le lrisorse, la povertà; la denatalità, i giovani, l’invecchiamento, la non autosufficienza?
Altro esempio è quello dell’indulto. L’unica discussione parlamentare e sociale è stata quella di sapere quale impatto avrebbe avuto sulla popolazione regolare. A nessuno ha interessato la finalità dell’indulto e cioè i soggetti che ne erano coinvolti. In fondo in fondo la cultura prevalente è quella di chiudere la porta e “buttare la chiave”. Per questo motivo l’indulto non è stato accompagnato da nessuna politica di integrazione.
Infine la prostituzione: le uniche discussioni sono sulla pulitura delle strade. Un governo che garantisse tale pulizia sarebbe il migliore del mondo. Che cosa avviene all’interno di quel mondo di violenti e profittatori, di vittime e di bavosi clienti, non interessa proprio nulla.
Si comprende la solitudine profonda ad operare per persone deboli che non hanno solidarietà.
La nostra storia ci impedisce di essere operatori ecologici che mantengono pulita la città. Ce lo vieta la nostra coscienza e la dignità delle persone con le quali viviamo e alle quali ci sforziamo di offrire futuro.
Capodarco, maggio 2007